Energia e clima, le carte in gioco
Category : Clima
di Matteo Leonardi da "ilmanifesto.it" del 2 novembre 2008
Ridurre le emissioni di gas serra non è un fatto di numeri e cifre, ma una questione che richiede un cambiamento strutturale e culturale. Il rifiuto dell’Italia di accettare la sfida di una riduzione del 30 per cento al 2020 e dell’80 per cento al 2050, come richiesto dalla comunità scientifica, indica un atteggiamento sprezzante e chiuso all’innovazione
Nelle ultime settimane finalmente in Italia abbiamo sentito parlare del pacchetto energia e clima proposto dall’Europa nel gennaio 2008 e ora in fase di approvazione. Abbiamo più che altro assistito a un inutile scontro su numeri e cifre relative ai costi che sosterrebbe il nostro paese per implementare le politiche di riduzione delle emissioni di gas serra richieste dall’Europa.
Lo scontro non è evidentemente una questione di numeri ma un assestamento politico che vuole correggere il tiro nella politica energetico-ambientale italiana.
Il governo Prodi aveva rotto con le posizioni negazioniste in stile Bush, ma non era riuscito a strutturare una politica climatica poggiata su solide basi. L’incapacità di creare consenso sulle nuove infrastrutture e di riformare i rapporti stato-regioni avevano più che altro determinato una politica energetica focalizzata su singoli progetti e su singoli provvedimenti, priva di uno spessore in grado di reggere un cambio di governo.
Berlusconi & c hanno trovato la strada spianata per impostare la loro linea politica, in cui è possibile identificare almeno tre matrici
La prima è di tipo culturale: è il negazionismo sui cambiamenti climatici che serpeggia nel paese, cui si aggiunge un certo disprezzo per politiche internazionali innovative e solidali
La seconda è il completo assoggettamento alle posizioni di Confindustria, non tanto politicamente come base di consenso, ma soprattutto tecnicamente in sostituzione di una macchina statale completamente priva di capacità quantitative.
La terza è la necessità di trovare uno spazio per il paese nella politica climatica mondiale, l’attuale sfida all’Europa, che si origina dai primi due punti, si infila perfettamente nell’avvicendamento alla Casa Bianca
Il negazionismo è un atteggiamento culturale basato sul rifiuto a confrontarsi con le indicazioni scientifiche. Oggi dall’amministrazione pubblica a tutti i livelli fino alle discussioni da bar è ancora radicato il pensiero che nega che i cambiamenti climatici siano innescati dagli impieghi energetici dell’uomo. Il rifiuto ad accettare la sfida di una riduzione delle emissioni del 30 per cento al 2020 e dell’ 80 per cento al 2050, come richiesto dalla comunità scientifica, è indice di un atteggiamento culturale chiuso all’innovazione e sprezzante rispetto alle soluzioni tecnologiche, come le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica. A ciò si aggiunge la diffidenza verso il confronto internazionale. Il ragionamento è: «Se proprio devo ammettere che il cambiamento climatico è responsabilità dell’uomo, allora è colpa dei cinesi». Non si vuole segmentare il problema. Per prima cosa, i cambiamenti climatici sono indotti dall’accumulo in atmosfera delle emissioni di CO2 generate dai consumi energetici degli ultimi 100 anni dei paesi sviluppati. Secondariamente, se i paesi in via di sviluppo raggiungono i nostri livelli di crescita senza imboccare uno sviluppo sostenibile, annulleranno i nostri sforzi di riduzione delle emissioni . Questo aspetto non è il problema dei negoziati internazionali ma ne costituisce la base.
Il Protocollo di Kyoto è basato proprio sul principio di «responsabilità condivisa ma differenziata» tra i paesi del mondo. Se non si accetta il principio di responsabilità differenziata (e il presente pacchetto di direttive dell’Europa è il riconoscimento che devono essere i paesi industrializzati a fare il primo passo), è impossibile pensare a una soluzione condivisa.
L’identificazione del governo con le posizioni di Confindustria si palesa negli aspetti tecnici delle negoziazioni. La richiesta di difesa dell’ambiente da parte dell’Europa rappresenta un vantaggio per le imprese. Grazie alle politiche climatiche, gli stati nazionali possono più facilmente riconoscere alle aziende aiuti di stato, altrimenti proibiti dall’Europa. Confindustria vorrebbe obiettivi ambientali sufficienti per giustificare gli aiuti di stato ma non tanto ambiziosi da indurre dei costi: se i target fossero vincolanti, i sistemi d’incentivazione e le politiche energetico-fiscali dovrebbero essere molto efficienti e destinare tutte le risorse pubbliche ai soli obiettivi ambientali riducendo gli spazi di rendita delle imprese. Un esempio: con l’attuale sistema d’incentivazione delle energie rinnovabili (i cosiddetti certificati verdi), su ogni euro speso dal consumatore finale solo il 60 per cento è effettivamente diretto alla promozione di nuovi impianti rinnovabili. Il rimanente 40 per cento è destinato a impianti idroelettrici di grande taglia già esistenti, agli impianti di cogenerazione e alle importazioni da paesi esteri. In un contesto di obiettivi ambientali più ambiziosi, si renderebbe necessario tagliare o ridurre i profitti per tali categorie. Gli esempi sono innumerevoli e necessariamente si andrebbe a mettere mano alla fiscalità energetica oggi permeata da innumerevoli privilegi ed esenzioni. Negli stessi giorni di scontro con l’Europa, Berlusconi annunciava la necessità di «incentivi ambientali» per nuove auto ed elettrodomestici. Non che tali incentivi non si possano definire «ambientali», ma siccome mostrano un rapporto costi-benefici del tutto inefficiente, non avrebbero ragion d’essere in un contesto di obiettivi ambiziosi.
Insomma: l’introduzione di nuovi target da parte dell’Europa determinerebbe un’allocazione delle risorse pubbliche secondo un criterio che non coinciderebbe più con le richieste delle imprese. Potrebbe ad esempio risultare più efficiente una politica di promozione dei mezzi pubblici che una di sostituzione del parco macchine. Il problema profitti per l’impresa versus costo per il cittadino è palese nell’atteggiamento italiano nei confronti della direttiva sull’Emission Trading, il «commercio di emissioni». Il governo italiano, insieme alla Polonia, è l’unico che insiste per assegnare gratuitamente i diritti di emissione agli impianti di generazione elettrica. I diritti hanno un valore economico sul mercato europeo e dunque la distribuzione gratuita equivale a incrementare i profitti dei produttori elettrici a spese dei consumatori. Al contrario, un’assegnazione a pagamento, come chiede la gran parte dei paesi europei, si traduce in un introito per lo stato che avrebbe così maggiori risorse per accelerare la transizione a un economia a minore emissione di CO2.
A ciò si aggiunge il tentativo italiano di conquistarsi uno spazio nella politica climatica mondiale. Anche il peggior negazionista sa che il mondo sta andando verso una profonda riconversione dei sistemi energetici e che nel prossimo trentennio questo settore sarà uno dei più significativi dell’economia mondiale. L’Europa ha fiutato che energie rinnovabili, efficienza energetica e tecnologie per contrastare i cambiamenti climatici possono rappresentare una specializzazione in grado di competere, per volumi e opportunità, con le biotecnologie e le nano tecnologie in cui Stati uniti e Giappone la fanno da padroni. In questo settore l’Europa è più avanti e grazie all’offuscamento degli Usa durante la presidenza Bush, ha preso la testa nell’elaborazione delle politiche e degli strumenti per contrastare i cambiamenti climatici. È una posizione importantissima che permette di disegnare le regole del futuro sviluppo mondiale. In questa partita, negli ultimi anni, l’Italia ha svolto un ruolo neutro se non ostativo alle politiche europee e si sente emarginata.
Se il pacchetto europeo energia-ambiente non sarà approvato entro dicembre, l’Europa rischia di perdere questa posizione e di buttare all’aria un decennio di politica climatica. Nella primavera 2009, si tengono le elezioni europee che solitamente vedono un ricambio dei parlamentari superiore al 50 per cento. Non approvare le direttive entro questa legislatura significa rimandare il pacchetto di ben oltre un anno. Al contempo, negli Usa entrambi i candidati hanno già annunciato l’intenzione di entrare nella partita dei cambiamenti climatici e riconquistare la leadership mondiale. Se l’Europa non approva il pacchetto nei prossimi mesi, arriverà al vertice di Copenhagen 2009 sui cambiamenti climatici avendo perso la possibilità di indirizzare le trattative internazionali. È anche per questo che Nicolas Sarkozy e Stavros Dimas, entrambi conservatori, non intendono rimandare, rivedere o diluire il pacchetto energia e clima.
Per rientrare nel gioco, l’Italia poteva sostenere il pacchetto e irrobustirlo con la necessità di una direttiva sull’efficienza energetica (settore nel quale il nostro paese ha capacità e opportunità). Invece ha preferito, al contrario, ostacolarlo in ogni modo, per non disturbare le imprese e cercare di raggranellare qualche favore durante le trattative, e per strizzare un occhio al futuro presidente degli Stati uniti.
Lo scontro non è evidentemente una questione di numeri ma un assestamento politico che vuole correggere il tiro nella politica energetico-ambientale italiana.
Il governo Prodi aveva rotto con le posizioni negazioniste in stile Bush, ma non era riuscito a strutturare una politica climatica poggiata su solide basi. L’incapacità di creare consenso sulle nuove infrastrutture e di riformare i rapporti stato-regioni avevano più che altro determinato una politica energetica focalizzata su singoli progetti e su singoli provvedimenti, priva di uno spessore in grado di reggere un cambio di governo.
Berlusconi & c hanno trovato la strada spianata per impostare la loro linea politica, in cui è possibile identificare almeno tre matrici
La prima è di tipo culturale: è il negazionismo sui cambiamenti climatici che serpeggia nel paese, cui si aggiunge un certo disprezzo per politiche internazionali innovative e solidali
La seconda è il completo assoggettamento alle posizioni di Confindustria, non tanto politicamente come base di consenso, ma soprattutto tecnicamente in sostituzione di una macchina statale completamente priva di capacità quantitative.
La terza è la necessità di trovare uno spazio per il paese nella politica climatica mondiale, l’attuale sfida all’Europa, che si origina dai primi due punti, si infila perfettamente nell’avvicendamento alla Casa Bianca
Il negazionismo è un atteggiamento culturale basato sul rifiuto a confrontarsi con le indicazioni scientifiche. Oggi dall’amministrazione pubblica a tutti i livelli fino alle discussioni da bar è ancora radicato il pensiero che nega che i cambiamenti climatici siano innescati dagli impieghi energetici dell’uomo. Il rifiuto ad accettare la sfida di una riduzione delle emissioni del 30 per cento al 2020 e dell’ 80 per cento al 2050, come richiesto dalla comunità scientifica, è indice di un atteggiamento culturale chiuso all’innovazione e sprezzante rispetto alle soluzioni tecnologiche, come le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica. A ciò si aggiunge la diffidenza verso il confronto internazionale. Il ragionamento è: «Se proprio devo ammettere che il cambiamento climatico è responsabilità dell’uomo, allora è colpa dei cinesi». Non si vuole segmentare il problema. Per prima cosa, i cambiamenti climatici sono indotti dall’accumulo in atmosfera delle emissioni di CO2 generate dai consumi energetici degli ultimi 100 anni dei paesi sviluppati. Secondariamente, se i paesi in via di sviluppo raggiungono i nostri livelli di crescita senza imboccare uno sviluppo sostenibile, annulleranno i nostri sforzi di riduzione delle emissioni . Questo aspetto non è il problema dei negoziati internazionali ma ne costituisce la base.
Il Protocollo di Kyoto è basato proprio sul principio di «responsabilità condivisa ma differenziata» tra i paesi del mondo. Se non si accetta il principio di responsabilità differenziata (e il presente pacchetto di direttive dell’Europa è il riconoscimento che devono essere i paesi industrializzati a fare il primo passo), è impossibile pensare a una soluzione condivisa.
L’identificazione del governo con le posizioni di Confindustria si palesa negli aspetti tecnici delle negoziazioni. La richiesta di difesa dell’ambiente da parte dell’Europa rappresenta un vantaggio per le imprese. Grazie alle politiche climatiche, gli stati nazionali possono più facilmente riconoscere alle aziende aiuti di stato, altrimenti proibiti dall’Europa. Confindustria vorrebbe obiettivi ambientali sufficienti per giustificare gli aiuti di stato ma non tanto ambiziosi da indurre dei costi: se i target fossero vincolanti, i sistemi d’incentivazione e le politiche energetico-fiscali dovrebbero essere molto efficienti e destinare tutte le risorse pubbliche ai soli obiettivi ambientali riducendo gli spazi di rendita delle imprese. Un esempio: con l’attuale sistema d’incentivazione delle energie rinnovabili (i cosiddetti certificati verdi), su ogni euro speso dal consumatore finale solo il 60 per cento è effettivamente diretto alla promozione di nuovi impianti rinnovabili. Il rimanente 40 per cento è destinato a impianti idroelettrici di grande taglia già esistenti, agli impianti di cogenerazione e alle importazioni da paesi esteri. In un contesto di obiettivi ambientali più ambiziosi, si renderebbe necessario tagliare o ridurre i profitti per tali categorie. Gli esempi sono innumerevoli e necessariamente si andrebbe a mettere mano alla fiscalità energetica oggi permeata da innumerevoli privilegi ed esenzioni. Negli stessi giorni di scontro con l’Europa, Berlusconi annunciava la necessità di «incentivi ambientali» per nuove auto ed elettrodomestici. Non che tali incentivi non si possano definire «ambientali», ma siccome mostrano un rapporto costi-benefici del tutto inefficiente, non avrebbero ragion d’essere in un contesto di obiettivi ambiziosi.
Insomma: l’introduzione di nuovi target da parte dell’Europa determinerebbe un’allocazione delle risorse pubbliche secondo un criterio che non coinciderebbe più con le richieste delle imprese. Potrebbe ad esempio risultare più efficiente una politica di promozione dei mezzi pubblici che una di sostituzione del parco macchine. Il problema profitti per l’impresa versus costo per il cittadino è palese nell’atteggiamento italiano nei confronti della direttiva sull’Emission Trading, il «commercio di emissioni». Il governo italiano, insieme alla Polonia, è l’unico che insiste per assegnare gratuitamente i diritti di emissione agli impianti di generazione elettrica. I diritti hanno un valore economico sul mercato europeo e dunque la distribuzione gratuita equivale a incrementare i profitti dei produttori elettrici a spese dei consumatori. Al contrario, un’assegnazione a pagamento, come chiede la gran parte dei paesi europei, si traduce in un introito per lo stato che avrebbe così maggiori risorse per accelerare la transizione a un economia a minore emissione di CO2.
A ciò si aggiunge il tentativo italiano di conquistarsi uno spazio nella politica climatica mondiale. Anche il peggior negazionista sa che il mondo sta andando verso una profonda riconversione dei sistemi energetici e che nel prossimo trentennio questo settore sarà uno dei più significativi dell’economia mondiale. L’Europa ha fiutato che energie rinnovabili, efficienza energetica e tecnologie per contrastare i cambiamenti climatici possono rappresentare una specializzazione in grado di competere, per volumi e opportunità, con le biotecnologie e le nano tecnologie in cui Stati uniti e Giappone la fanno da padroni. In questo settore l’Europa è più avanti e grazie all’offuscamento degli Usa durante la presidenza Bush, ha preso la testa nell’elaborazione delle politiche e degli strumenti per contrastare i cambiamenti climatici. È una posizione importantissima che permette di disegnare le regole del futuro sviluppo mondiale. In questa partita, negli ultimi anni, l’Italia ha svolto un ruolo neutro se non ostativo alle politiche europee e si sente emarginata.
Se il pacchetto europeo energia-ambiente non sarà approvato entro dicembre, l’Europa rischia di perdere questa posizione e di buttare all’aria un decennio di politica climatica. Nella primavera 2009, si tengono le elezioni europee che solitamente vedono un ricambio dei parlamentari superiore al 50 per cento. Non approvare le direttive entro questa legislatura significa rimandare il pacchetto di ben oltre un anno. Al contempo, negli Usa entrambi i candidati hanno già annunciato l’intenzione di entrare nella partita dei cambiamenti climatici e riconquistare la leadership mondiale. Se l’Europa non approva il pacchetto nei prossimi mesi, arriverà al vertice di Copenhagen 2009 sui cambiamenti climatici avendo perso la possibilità di indirizzare le trattative internazionali. È anche per questo che Nicolas Sarkozy e Stavros Dimas, entrambi conservatori, non intendono rimandare, rivedere o diluire il pacchetto energia e clima.
Per rientrare nel gioco, l’Italia poteva sostenere il pacchetto e irrobustirlo con la necessità di una direttiva sull’efficienza energetica (settore nel quale il nostro paese ha capacità e opportunità). Invece ha preferito, al contrario, ostacolarlo in ogni modo, per non disturbare le imprese e cercare di raggranellare qualche favore durante le trattative, e per strizzare un occhio al futuro presidente degli Stati uniti.