Inchiesta dell’Economist su imprese e riscaldamento globale

Inchiesta dell’Economist su imprese e riscaldamento globale

Category : Clima

L’Economist di questa settimana dedica uno speciale di 15 pagine all’emergenza ambientale. La rivista britannica indaga sul modo in cui le imprese di tutto il mondo stanno affrontando il problema dei mutamenti climatici, per capire come riscaldamento globale ed imprese si influenzino a vicenda e se, ad oggi, si sono ottenuti risultati concreti sul piano della riduzione delle emissioni.

La carne al fuoco è tanta e cercheremo di rendervi conto del corposo dossier con una serie di post che usciranno nel corso della settimana. Questo primo post dà un quadro generale dell’inchiesta e dei punti principali toccati nell’inserto speciale. I post successivi commenteranno invece i singoli argomenti approfonditi nell’inchiesta, come l’impatto dei programmi di riduzione delle emissioni, gli standard per le automobili o la difficoltà di convincere i privati a risparmiare energia anche quando è nel loro interesse.

Chiariamo subito che l’indagine della rivista britannica riguarda il riscaldamento globale e dunque le emissioni di gas serra – misurate in anidride carbonica equivalente – e non tutti gli altri inquinanti di diverso tipo, che hanno gravi conseguenze ambientali, ma che non contribuiscono direttamente al global warming. L’inchiesta lascia fuori anche le emissioni del settore aereo, che verranno trattate in uno speciale a parte (del quale parleremo quando uscirà).

Un’inchiesta dell’Economist sul rapporto fra imprese ed ambiente è una notizia di per sé ed ha un valore particolare.
Il valore è dato dalla solidità dei dati alle spalle degli articoli che si leggono sulla rivista: gli speciali sono muniti di bibliografia delle fonti, senza contare il fatto che l’Economist si può avvalere di un blasonato centro di analisi, l’Economist Intelligence Unit.
La notizia sta nel fatto che l’Economist è una rivista di attualità la cui analisi ha un taglio prima di tutto economico. Malgrado qualcuno lo abbia tacciato di comunismo, non si può negare che il magazine si inserisca perfettamente nella tradizione liberale britannica. In passato la rivista si è schierata a favore della guerra in Irak e contro il commercio equo e solidale. L’attenzione dell’Economist per l’ambiente è da sola una prova di quello che la rivista stessa sostiene nelle pagine dello speciale: ormai il settore privato ha ampiamente superato la fase della negazione dei cambiamenti climatici, per passare a quella dell’azione. Non è più solo la politica, con i grandi negoziati internazionali o le iniziative europee, a preoccuparsi del clima.

Negli anni ’80 – quando si cominciò a parlare di riscaldamento globale – il mondo degli affari reagì negando recisamente l’esistenza del problema climatico (per scongiurare aumenti dei costi dovuti alla legislazione ambientale) e negli Stati Uniti i grandi inquinatori fondarono il Global Climate Coalition (GCC, defunto nel 2002) per combattere ogni iniziativa di riduzione delle emissioni.
Attualmente, le multinazionali fanno l’esatto opposto: fondano lobby per chiedere ai governi norme stringenti per la riduzione dei gas serra. È quanto è accaduto negli Stati Uniti, dove big del calibro di General Motors, General Electric, Alcoa e Alcan hanno fondato il gruppo di pressione Climate Action Partnership.

Nell’introduzione, l’Economist osserva che oggi nessuna grande impresa si azzarderebbe a dire pubblicamente che il riscaldamento globale non esiste o che non va affrontato. Oggi semmai tutti cercano di fare greenwashing, di dipingersi come verdi. Perché?
Per la rivista i motivi sono due. La pressione morale è ormai enorme. L’uragano Katrina, la canicola in Europa, gli orsi polari sempre più magri, per non parlare degli ammonimenti dell’IPCC e dei personaggi in vista (come Al Gore) che si affannano a spiegare sui mass-media i pericoli che la Terra sta correndo.
Il secondo motivo è la pressione economica. Da un lato i governi hanno capito che va introdotto il principio “chi inquina paga” e quindi stanno cominciando a mettere un prezzo sulle emissioni. Dall’altro, chi spinge per l’indipendenza energetica spesso si trova a combattere a fianco degli ecologisti, dato che l’energia pulita è producibile in tutti i paesi (eolico, solare, biomassa). Sempre sul lato economico, stanno poi emergendo aziende che possono trarre profitto dalle regolamentazioni ambientali, perché nuove norme sull’inquinamento possono significare una più veloce sostituzione dei capitali fissi (nuovi veicoli, nuovi macchinari, etc…). Insomma, l’ambiente è anche un business e se le emissioni si comprano, si vendono e si pagano, vuol dire che è nato un nuovo mercato – il mercato del carbonio – e quindi nuove opportunità di guadagno.

La conclusione degli autori dello speciale è che siamo sulla buona strada per arrivare ad un’economia che internalizzi il costo dei danni ambientali: i presupposti ci sono e la svolta è possibile, ma siamo ancora lontani. La rivoluzione verde non può essere data per scontata. Il succo dell’inchiesta è riassunto dalla rivista stessa con queste parole: “Le imprese ci possono riuscire, con l’aiuto dei governi”. Ebbene sì, anche oltremanica si è convinti che solo una forte azione pubblica possa rimediare al fallimento di mercato sul versante ambientale. L’Amministrazione Bush pare quindi sempre più isolata da questo punto di vista. Ma attenzione, per l’Economist il tipo di azione richiesta è ben preciso: niente incentivi, niente standard, ma solo creazione di un mercato delle emissioni globale che sia credibile (cioè dove i permessi di inquinare abbiano prezzi sufficientemente alti). L’idea è che in questo modo i governi possono salvare il pianeta senza compromettere (eccessivamente) l’economia.

Ma i rischi che il treno della ferrea legislazione ambientale deragli ci sono. Per la rivista sono tre: uno è che l’ecologismo, ora in voga, passi di moda; il secondo è che il prezzo del petrolio scenda, ché le tecnologie pulite sono convenienti in modo inversamente proporzionale al prezzo del petrolio; mentre il terzo è che i governi siano troppo morbidi e non alzino a sufficienza il prezzo dei permessi di inquinare .

postato da Matteo Razzanelli il domenica 03 giugno 2007 su ecoblog.it