India, un paradiso chiamato Kerala. “Così salviamo la nostra acqua”
Category : Ambiente
Una regione modello per istruzione e per uno sviluppo meno dannoso.
Il premier è marxista e ambientalista. E ci sono regole anche per i turisti
di FEDERICO RAMPINI da Repubblica.it
È in fondo all’India un esempio utile per affrontare l’emergenza-siccità italiana. Lo Stato del Kerala, con un reddito pro capite di 550 euro all’anno che è appena il 2,5% di quello italiano, non sembra il luogo più ovvio per apprendere come si salva l’acqua del pianeta.
Eppure questa estremità meridionale dell’India viene studiata nel mondo intero come un modello di sviluppo sostenibile, meno dannoso e squilibrato per l’ambiente. Il Kerala possiede un rispetto che a noi manca per l’acqua, benché non sia affatto arido. Al contrario, è un’India umida e verde, ben diversa dalle regioni assetate e polverose come il Rajasthan con le sue tinte giallo-ocra più familiari ai turisti.
Sulla costa del Kerala un fitto dedalo di delta fluviali incrocia le correnti del Mare d’Arabia, le terre emerse sono ricoperte di foreste. Il resto è laguna marina, laghi e canali naturali o artificiali, quelle che chiamano "backwaters", le acque interne. L’acqua qui abbonda in ogni momento del giorno e in ogni attività: si abita sull’acqua, ci si sposta in barca, molti vivono ancora della pesca, per altri i canali o i fiumi irrigano l’agricoltura, servono da fognature, vasche per l’igiene personale, piscine per i ragazzi.
In questi giorni i primi temporali preannunciano la prossima stagione dei monsoni, quando da giugno l’acqua non sarà più solo "sotto" ma anche "sopra" il Kerala, inondato a cateratte dal cielo. In mezzo a tanto liquido il viaggiatore occidentale resta meravigliato di fronte alle targhe d’ottone che trova nel bagno dell’albergo, con dettagliate istruzioni per insegnarci le virtù del risparmio.
"Quando noi ci laviamo i denti per sciacquare la bocca ci basta usare l’acqua di un bicchiere. Se voi la lasciate scorrere dal rubinetto potete sprecare fino a 44 litri al giorno". "C’è chi si lava le mani con l’acqua e la lascia scorrere giù dal lavandino. Noi tappiamo il lavandino e conserviamo l’acqua per pulire le mani insaponate: un semplice gesto vale 16 litri risparmiati". "Sotto la doccia abbiamo l’abitudine di aprire il rubinetto a intermittenza, e chiuderlo quando non serve. Chi lo lascia aperto dall’inizio alla fine consuma 70 litri in più". Nel loro zelo gli albergatori aggiungono consigli su come lavare le automobili o innaffiare i giardini, che non sono di una utilità immediata per il turista. Interessanti da riportare a casa propria, però.
La Baia di Fort Cochin, l’ex colonia portoghese oggi ribattezzata Kochi, contiene un’arcipelago di isole dalle linde case costruite a fior d’acqua. È un’India in forte contrasto con i luoghi del boom economico più recente. È lontano il caos dinamico di Mumbai, Calcutta e Bangalore, le capitali del "miracolo indiano" su cui si concentra l’attenzione degli investitori occidentali.
Se il futuro del pianeta appartiene alle megalopoli asiatiche, mostri urbani con 20 e più milioni di abitanti, congestioni di grattacieli e baraccopoli sull’orlo del collasso, evidentemente qualcuno si è dimenticato di dirlo agli abitanti del Kerala. Qui la popolazione rimane legata a uno stile alternativo: anche quando è "middle class" che lavora in città, continua ad abitare come facevano i genitori e i nonni, dispersa nelle villette tra gli alberi, e la vita scorre tranquilla come le placide acque verdi che bagnano il paesaggio. Le variopinte barche dei pescatori d’alto mare sembrano templi votivi galleggianti, sfoggiano sulla prua colorate divinità induiste ma anche Madonne o santi cristiani. Solcano i fiumi incrociando i mini-vaporetti per passeggeri, i traghetti per automobili e i rimorchiatori. Tutto è circondato dalla foresta tropicale. Fiumi e canali trasportano banchi di ninfee e solcano muraglie di palme da cocco, alberi di banani e di ananas. La brezza dell’oceano e le forti maree attenuano la morsa del caldo umido. Le acque sono così ricche di pesci da attirare lunghe migrazioni stagionali da Stati anche lontani, la gente di qui riconosce subito gli "Andhra-people" e gli "Orissa-people", colonie di pescatori che fanno centinaia di chilometri da altre regioni dell’India. I locali praticano anche una singolare pesca allo strascico: a bordo di piroghe o gondole sottili, controcorrente, remando freneticamente a mano, con un’energia sovrumana per questi pescatori così magri, sfrecciano sul mare lanciando dietro di sé le reti bianche sottilissime che da lontano hanno l’aspetto dello zucchero filato.
Nei laghi artificiali per la piscicoltura le donne si tuffano e nuotano completamente vestite, con le mani esperte afferrano i pesci più grossi pronti per il mercato. Le antiche reti cinesi importate più di mille anni fa dominano le spiagge fino a perdita di vista, da lontano le loro strutture di legno fisse sembrano giganteschi fenicotteri, poi si abbassano nell’acqua come enormi ragni di legno, alti quanto i palmizi.
Non c’è miseria, nessun mendicante per le vie di Kochi, anzi un certo decoro, un benessere modestissimo ma diffuso. Nelle casette dei pescatori i mattoni e l’intonaco dai colori fiammanti hanno sostituito i vecchi materiali più poveri: legno, fibra di cocco e foglie di palma. I muretti di argine che segnano il tenue confine fra acqua e terraferma sono curati come in un parco inglese. Il battello con la scritta Mobile Health Clinic (ambulatorio mobile) e le numerose scuole pubbliche o religiose ricordano una peculiarità di questa zona: il Kerala, con il primo governo comunista eletto democraticamente nella storia mondiale (1957), ha sempre avuto una qualità di servizi sociali superiore al resto dell’India.
Per decenni fu l’equivalente dell’Emilia Romagna per i comunisti italiani, una vetrina di buongoverno. Oggi l’efficienza burocratica non è più quella di una volta. Il primo ministro del Kerala V. S. Achuthanandan denuncia che "solo un terzo dei dipendenti pubblici si presentano regolarmente al lavoro".
Ciononostante sul suo territorio c’è il migliore livello di alfabetizzazione (91% contro il 65% dell’intera India), una longevità superiore di 10 anni rispetto alla media nazionale, e minori disparità socio-economiche fra le caste o fra uomini e donne. Per chi arriva dallo smog del traffico di Delhi, dal brulicare di cantieri di Mumbai, dal fervore eccitato della nuova Calcutta, sembra di approdare in una piccola Svizzera tropicale, afosa ma ordinata. È su questa atmosfera che il Kerala punta per rimanere "diverso" finché può. Incoraggia il business del turismo di lusso, sfrutta abilmente il fascino della medicina aiurvedica (nata qui), dei massaggi d’olio aromatico e delle lezioni di yoga, insieme con la nostalgia di una storia coloniale particolare: per le stradine di Fort Cochin si incontrano visitatori portoghesi, olandesi, inglesi, israeliani, attirati dalle reliquie intatte del proprio passato.
Il Kerala rimane una roccaforte della sinistra e del potere sindacale, non proprio l’ideale per calamitare gli investimenti esteri. Eppure finora non ha sfigurato nel confronto con altre zone dell’India dove la modernità è sinonimo di urbanizzazione, congestione, inquinamento, tensioni sociali. Nell’ultimo biennio il Pil locale è cresciuto del 9,2% all’anno, ancor più della media nazionale. Le rigidità imposte dai sindacati si possono aggirare.
Il gruppo Tata, sempre disposto a sperimentare nuove soluzioni di ingegneria sociale, dopo un lungo conflitto con i 13.000 braccianti nelle sue piantagioni di tè del Kerala ha risolto l’impasse coinvolgendoli nell’azionariato dell’azienda.
Trasformata quasi in cooperativa, la Tata Tea ha visto crollare gli scioperi. Del resto la conflittualità sta scendendo in maniera generale: rispetto alle ottomila vertenze con scioperi di 15 anni fa, il numero di astensioni dal lavoro si è dimezzato. E la forza dei comunisti non ha impedito al Kerala di riuscire la prima privatizzazione di un aeroporto indiano.
Solo l’elevato livello dell’istruzione ha giocato un brutto scherzo al Kerala. Per una gioventù troppo qualificata rispetto ai posti disponibili sul mercato del lavoro locale, l’emigrazione è diventata una valvola di sfogo. A Kochi ricorre una battuta: "Il miracolo del Karnataka (cioè il boom dell’informatica nello Stato vicino dove si trova Bangalore, ndr), è fatto tutto con i cervelli del Kerala". Ancora più numerosi sono quelli che hanno trovato opportunità e ricchezza varcando il Mare Arabico, soprattutto a Dubai.
Sui 35 milioni di cittadini del Kerala quasi un milione e mezzo (ben il 4%) vivono all’estero, a maggioranza nel Golfo Persico. Le loro rimesse alle famiglie valgono centinaia di milioni di euro all’anno. Una parte di questi emigranti di successo cominciano a tornare. Portano con sé una cultura più capitalista rispetto alle tradizioni del Kerala. È l’inizio di un’industrializzazione che si insinua dentro il "cuore verde" di questo Stato.
I delfini che ho visto giocare liberamente ogni mattina sul braccio di mare tra Fort Cochin e l’isola dei pescatori Vypeen, pochi giorni fa sono spariti improvvisamente. L’orizzonte si era oscurato. Per ore il mare è stato "occupato" da un King Kong navale, un titanico convoglio speciale composto di chiatte trainate da tre rimorchiatori, su cui torreggiavano le alte colonne portanti di una piattaforma petrolifera da depositare nel Golfo.
La vicina zona di Ernakulam è già invasa da quest’altro tipo di sviluppo: le ciminiere fumanti di un complesso petrolchimico, le banchine e le gru dove accostano le navi portacontainer. Lì invece degli hotel-boutique per gli amanti della tradizione aiurvedica ci sono i grattacieli Hilton e Taj, intrappolati nell’interporto, assediati da un viavai di autocarri.
Il premier Achuthanandan, marxista e ambientalista, dopo anni di resistenza ha dovuto cedere davanti al bisogno di energia e ha dato il suo via libera a una controversa diga idroelettrica, che rischia di allagare un antico "corridoio degli elefanti" nella foresta del Silent Valley National Park. In vicinanza del porto i pescatori vedono acque più inquinate. Sorvegliano la presenza dei delfini. Temono che un giorno non ci saranno più: emigrati anche loro, ma per sfuggire ai veleni.
Per questo si avverte qui, in mezzo a tante fedi che convivono pacificamente, una nuova religione dell’acqua. La sua abbondanza non inganna più. Il Kerala ha appreso che la ricchezza idrica è apparente e precaria. Sa quanto costa "pulire lo sporco", sa la differenza di costi che separa l’acqua abbondante ma pericolosa e quella limpida, pura e potabile. Ha anche capito che una delle priorità è educare meglio noi, viaggiatori d’Occidente, gli spreconi venuti dalla civiltà del rubinetto aperto. Così sono nate negli hotel di Kochi tutte quelle istruzioni scolpite nelle targhe d’ottone, piene di sorprese. Chi lo avrebbe detto: usando il secchio per annaffiare i fiori del giardino – anziché la canna di gomma attaccata al rubinetto – si risparmiano 115 litri a settimana. Una settimana di vita per una famiglia del Kerala.