Metano e bella politica

Metano e bella politica

Category : Varie

Siamo seduti su un «tesoro energetico» e ci siamo legati le mani per non utilizzarlo. Ecco, per chi cerca un bell’esempio concreto di ciò che non è buona politica – al di là degli schieramenti, perché la scemenza cresce bene a destra e a sinistra – basta scartabellare nell’attività legislativa del Senato. Ne vien fuori, quasi per caso, l’assurda storia di un «campo metanifero» che si trova in mare, in corrispondenza del delta del Po. Questo giacimento, spiega il senatore udc Mauro Libè, può dare «35 miliardi di metri cubi di gas l’anno», ossia – per avere un’idea – coprire «i fabbisogni dell’Italia per 7-8 mesi». Ma soprattutto sarebbe utilissimo come «serbatoio d’emergenza». È di proprietà dell’Eni per l’86-87 per cento, di Edison per l’11. Il resto appartiene alla British gas. Un’occasione ghiotta per bilanciare almeno un poco l’assoluta dipendenza dai gasdotti russi e algerini. In teoria. E in pratica? È presto detto. Nel 1995, il primo governo Berlusconi emana una legge che condiziona il via libera all’utilizzo del giacimento («ricerca e coltivazione degli idrocarburi») a una «valutazione di impatto ambientale» da parte del ministero dell’Ambiente, d’accordo con la Regione Veneto. Tanta accortezza si deve soprattutto alla necessità di valutare se ci siano – come sembra – fenomeni di «subsidenza», ossia di abbassamento della superficie terrestre, verso la costa. Dopo questa prima restrizione l’esecutivo cade, si va alle elezioni e arriva il centrosinistra. Governa Prodi, governa D’Alema e si arriva così al 3 dicembre 1999, quando il ministro dell’Ambiente, Edo Ronchi, vieta «ricerca e coltivazione» per i giacimenti che si trovano entro le 12 miglia dalla costa, ma consente una fase di «sperimentazione» per ciò che si trova oltre quel limite. Il passaggio successivo è nel 2002 quando, governando di nuovo Berlusconi, la legge 179 rende il campo metanifero del tutto intoccabile, perché estende il «divieto» di «ricerca e coltivazione degli idrocarburi» anche «nelle acque del golfo di Venezia», proprio per il tratto di mare tra la foce del Tagliamento e del Po. Con il che la straordinaria opera è compiuta: dicono che da allora il giacimento sia finito sotto gli occhi dei croati, e che qualcuno abbia cominciato a trivellare. Ma sono voci. Di certo c’è che ora il ministero dell’Ambiente, sulla base di una valutazione di impatto ambientale su alcuni pozzi, avrebbe dichiarato che il fenomeno di subsidenza – quel rischio che aveva originato i primi divieti – non interessa quelle coste. Così adesso Libè, come pure altri senatori del centrodestra, si è attivato con un emendamento (al decreto legge 159), per abolire il divieto del 2002. Divieto che, si badi bene, era stato stabilito dal centrodestra medesimo, cinque anni fa. Ma se la ratio legislativa continuerà a essere quel ping pong appena descritto, c’è da aspettarsi che il centrosinistra boccerà l’emendamento. Del resto, Pecoraro Scanio è bravissimo a dire no

di L’Indipendente del 19 ottobre 2007