Sommersi dai veleni radioattivi
Category : Ambiente
di Primo Di Nicola
4.300 milioni è il costo per ripulire il Paese dai 25 mila metri cubi di scorie e mettere a sicurezza i 24 impianti nucleari. Ma dal 1999 a oggi non si è fatto nulla. Tra sprechi e incidenti. Per provarlo L’espresso è entrato nel Centro ricerche nucleare Enea della Casaccia e ha visitato i siti più pericolosi della centrale del Garigliano.
Il centro di Roma è a soli 20 chilometri. E intorno all’area dell’Enea sono ormai sorte borgate con 30 mila persone. Eppure è lì che parte dell’eredità nucleare italiana dorme sonni lunghi e tormentati: oltre 4.500 metri cubi di scorie, frutto degli esperimenti dell’atomica tricolore e delle terapie del sistema sanitario, chiusi in depositi che registrano più di una crepa. L’ultimo allarme è scattato a ottobre: un banale malfunzionamento del sistema di sicurezza ha fatto sfiorare la minaccia radioattiva. Altri pericoli si corrono ogni giorno nelle vecchie centrali del Garigliano o di Latina, nei depositi di Saluggia o Rotondella: lì dove l’Italia ha cercato di nascondere i suoi 25 mila metri cubi di rifiuti ricevuti in testamento dalla politica nucleare degli anni Sessanta e Settanta. Finora sono stati spesi oltre 15 mila miliardi di vecchie lire per fermare le centrali, poi dal 1999 a oggi è stato messo sul tavolo un miliardo di euro per bonificare i residui. Ma la sicurezza è lontana. E per fare pulizia si stima che ci vorranno altri 4.300 milioni di euro. Quando sarà possibile dichiararci ‘No nuke’ una volta per tutte? Non prima del 2024. Fino ad allora il pericolo resterà alle porte di casa.
Come al Centro ricerche Casaccia dell’Enea, XX municipio di Roma. Qui, nel punto più delicato del complesso, nei locali dove sono custodite apparecchiature contaminate, rifiuti nucleari e importanti quantitativi di uranio e plutonio, da mesi è fuori uso l’impianto antincendio. Il 30 ottobre proprio a causa del malfunzionamento dell’apparato, una quarantina di bombole hanno scaricato anidride carbonica dentro l’impianto Plutonio: un getto simultaneo che ha provocato un enorme aumento di pressione. Sono saltate un paio di porte di sicurezza, ma poteva andare molto peggio se uno delle decine di contenitori di materiali radioattivi avesse registrato una perdita. Si tratta di plutonio: un’emissione all’esterno avrebbe fatto scattare l’emergenza anche per la popolazione circostante. Per evitare che un incidente simile si ripeta, l’impianto antincendio è stato bloccato. Era sovradimensionato: per spegnere le fiamme rischiava di fare esplodere il palazzo.
Grandi timori anche in Campania per un impianto obsoleto con strutture fuori norma che rischiano di cedere, provocando danni irreparabili. Capita a Sessa Aurunca, nella centrale nucleare del Garigliano, ferma da 27 anni. Sopra il reattore continua a stagliarsi minaccioso il camino alto 90 metri. Costruito in calcestruzzo, mostra tutti i segni dell’abbandono: l’intonaco si sgretola, l’armatura metallica spunta dal cemento come uno scheletro sempre più corroso. È in una zona sismica ad alto rischio: per questo l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Apat), che insieme a vari ministeri gestisce il ‘decommissioning’ nucleare, da anni ha chiesto il suo smantellamento. L’incubo è che il camino ceda, schiantandosi sulla sfera bianca che custodisce il reattore. Una scena da film catastrofico anni Settanta? No, si tratta di pericoli concreti, anche se nessuno può prevedere le conseguenze della fuga radioattiva.
Scandalo atomico
Vent’anni dopo il referendum con cui gli italiani dissero no al nucleare, terrorizzati dalla nuvola di Chernobyl, l’eredità atomica resta pesante. Con una serie di casi inquietanti che ‘L’espresso’ ha potuto documentare per la prima volta entrando nel centro della Casaccia e nell’impianto del Garigliano.
Nella base della Casaccia ormai inglobata dalle borgate romane si vive un’atmosfera particolare. Pare di inoltrarsi dentro una matrioska di cemento armato, dove la protezione aumenta mentre si avanza verso l’interno. Nel cuore c’è il magazzino con le cassette di plutonio. Una selva di telecamere seguono ogni passo del visitatore, tutto è custodito da una doppia blindatura, che non lascia filtrare nemmeno i rumori. Ma colpisce ancora di più la sala delle ‘scatole a guanti’, con i macchinari che servivano per confezionare il combustibile nucleare. Si cammina tra file di cubi trasparenti, illuminati all’interno: l’atmosfera ha qualcosa di spettrale a metà strada tra una fiction di fantascienza e un racconto horror. Qui il pericolo è ancora di casa: sette operai sono rimasti contaminati dalle perdite. I tecnici negano persino che ci sia stata una crepa: parlano di sostanze ‘trasudate’. Ma si capisce che la presenza dei giornalisti è un evento eccezionale, da tenere sotto controllo quasi più dei rifiuti tossici. Invece sul Garigliano c’è un clima da fortezza Bastiani: è l’ultimo presidio di un passato tecnologico. Il personale sa di rischiare, ma lo smantellamento significherebbe la disoccupazione: ogni anno lo Stato spende dieci milioni di euro per la manutenzione di questo gigante abbandonato. Dentro la vecchia centrale il tempo si è fermato al 23 novembre 1980, quando il terremoto in Irpinia fece scoprire che quella era una zona sismica. Tutto congelato, prima di Chernobyl e prima ancora del referendum. È quasi un museo di archeologia industriale, dove i fantasmi sono in grado di provocare contaminazioni concrete. La centrale del Garigliano aveva un gemello dall’altro lato dell’Atlantico, costruito negli stessi anni a Big Rock Point negli Usa. Gli americani l’hanno sfruttata fino al ’97 e poi hanno spento il reattore. Con 350 milioni di dollari è stato smontato e ripulito tutto: l’area trasformata in ‘prato verde’ è stata consegnata nel 2005 allo stato del Michigan per farne un parco. Sul Garigliano invece ogni cosa è illuminata dalla paura.
L’onda letale
In tutta Italia centrali e apparati sono ancora lì con tutto il loro armamentario radioattivo e la coda sterminata dei rifiuti nucleari per i quali non si riesce a trovare una collocazione definitiva. Basta andare a Saluggia, in provincia di Vercelli, per imbattersi in una piscina con combustibile irradiato che perde liquidi: colano nel terreno in profondità, minacciando le falde acquifere. Accade nel sito Eurex (Enriched uranium extraction) dove in una vasca di 625 metri cubi sono sepolti 52 elementi di combustibile nucleare provenienti dalla centrale di Trino e da quella del Garigliano. C’è persino una dose di scorie importate dal reattore di ricerca di Petten (Paesi Bassi). I cittadini di Saluggia da tempo chiedono di portare via tutto: l’impianto Eurex si trova a pochi metri dagli argini della Dora Baltea, dove le alluvioni sono frequenti e toccano anche la bara dei rifiuti più tossici. L’ultima volta è accaduto nel 2000: da allora è stato tirato su un muro in cemento, estrema barriera contro la piena. Ma il rischio idrogeologico incombe lo stesso, così come il timore dei residenti. Gli esperti dei ministeri (Sviluppo economico, Ambiente) studiano da tempo una soluzione del problema con i responsabili dell’Apat. Due decenni di progetti, piani e controrelazioni, ma poco si è mosso. "Abbiamo speso tantissimi soldi senza eliminare i pericoli", dichiara Aleandro Longhi, il deputato che invoca una commissione parlamentare d’inchiesta sui ritardi nella bonifica: "L’Italia è diventata una pattumiera nucleare, uno dei paesi più a rischio di incidenti e inquinamenti radioattivi".
Bolletta salata
Eppure per l’uscita dal nucleare gli italiani stanno pagando un conto salatissimo. Tra quello che è andato all’Enel (12 mila 315 miliardi di lire) e gli oneri riconosciuti alle imprese appaltatrici vittime dello stop referendario (altri 3 mila miliardi di lire) sono stati bruciati 15 mila miliardi di lire. Poi ci sono i costi veri e propri del ‘decommissioning’ nucleare. È dagli inizi degli anni Sessanta, quando le centrali erano ancora in costruzione, che i contribuenti versano denaro per il loro smantellamento. Compresa nella bolletta dell’Enel, c’è sempre stata una ‘quota atomica’: serviva per creare due fondi per la dismissione. Questi due ricchi conti, che nel frattempo avevano raccolto oltre 331 milioni di euro, nel novembre del 1999, sotto la supervisione dell’Autorità per l’energia, sono stati riversati nelle casse della Società per la gestione degli impianti nucleari (Sogin), che si occupa del decommissioning. E non basta. A partire dal 2000, sempre nella bolletta, con la cosiddetta ‘tariffa A2’ gli utenti hanno continuato a finanziare il ‘decommissioning’ pagando (con vari ritocchi successivi) 0,6 lire a chilowattora. In questo modo, fino al 2006, sono stati raccolti altri 622 milioni di euro, anch’essi finiti alla Sogin. In totale, quasi un miliardo di euro. Ma è solo un antipasto. La pulizia definitiva richiederà altri 4,3 miliardi, da sborsare entro il 2024.
Eredità nucleare
Bloccate dal referendum, nella Penisola ci sono una lunga serie di installazioni, realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta, tutte da svuotare, demolire e riportare a ‘prato verde’. Per cominciare, le quattro centrali elettronucleari del Garigliano, Latina, Trino e Caorso; l’impianto per il combustibile della Fabbricazioni nucleari di Boscomarengo (Alessandria); i centri pilota Eurex e Itrec per il riprocessamento del combustibile nucleare esaurito, quest’ultimo situato alla Trisaia (Matera); il deposito Avogadro (Fiat), anch’esso a Saluggia: infine, le strutture di ricerca come i laboratori Plutonio e Opec del Centro dell’Enea della Casaccia e del Centro comunitario Ispra (Varese) per il trattamento e il deposito di rifiuti radioattivi. C’è poi una mole sterminata di scorie, lasciate lì dove erano state prodotte: strutture spesso prive di quei requisiti internazionali di sicurezza. Insomma, uno stoccaggio all’italiana. Si tratta di 25 mila metri cubi di materiali radioattivi di prima, seconda e terza categoria (questi ultimi continuano a emettere radiazioni per centinaia di migliaia di anni), a cui vanno aggiunti i 60 mila metri cubi degli impianti da smantellare, gli altri 6 mila di rifiuti condizionati frutto delle operazioni di riprocessamento del nostro combustibile effettuate in Inghilterra, più la parte di competenza italiana del combustibile utilizzato dal reattore Superphenix in Francia. Per 12 anni tutti hanno fatto finta di niente, limitando al minimo gli interventi di bonifica. Solo nel 1999, per iniziativa di Pierluigi Bersani, allora ministro delle Attività produttive, fu varata la Sogin, cui venne affidata la disattivazione accelerata degli impianti e il trattamento dei rifiuti stoccati nei siti di produzione. Anche l’attività di questa società è andata avanti con lentezza, tanto che nel febbraio 2003, quasi due anni dopo le Torri gemelle, a fronte dei rischi di attentati il governo Berlusconi decretò lo stato di emergenza nelle regioni (Piemonte, Emilia Romagna, Lazio, Campania, Basilicata) che ospitano i centri nucleari: l’allora presidente della Sogin, il generale Carlo Jean, fu nominato commissario per la sicurezza dei materiali e delle installazioni nucleari. La sua missione era chiara: costruire un deposito nazionale, dove concentrare tutte le scorie disseminate lungo la Penisola. Compito assolto? "Macché", sottolinea Tommaso Sodano, presidente della commissione Ambiente del Senato: "Il deposito non è stato realizzato e i rifiuti solo ancora sparsi per l’Italia. Per il decommissioning è stato fatto poco o niente". Quanto esattamente? "Forse solo il 10 per cento del lavoro complessivo", ammette Massimo Romano, da pochi mesi amministratore delegato di Sogin.
Avanti piano
Per quanto riguarda le centrali si sono qua e là smantellate sale turbine (a Trino), rimosso amianto (a Caorso), decontaminati i circuiti e smontate le condotte (Latina). Il grosso è rimasto invece in piedi. Ogni anno 50 milioni vengono divorati dalla Sogin per la manutenzione di questi mostri addormentati. Soldi che si potevano risparmiare intervenendo prima. Perché tanti ritardi? Tra ministeri, Apat e Sogin è tutto un palleggio di responsabilità: colpa degli uffici incapaci di autorizzare i progetti. No, replicano gli altri: quei disegni sono inadeguati. Sembra incredibile, ma nonostante siano stati presentati quasi dieci anni fa i piani globali per la disattivazione di tutte le centrali, le pratiche continuano a rimbalzare da una scrivania all’altra senza arrivare a una decisione. Analoga sorte per i Via, gli studi di valutazione per l’impatto ambientale. Dipenderà magari dal fatto che le pratiche sono troppo complicate? No: i permessi tardano anche per le richieste più elementari, come la realizzazione del deposito provvisorio per i rifiuti ora stoccati in locali inadatti (Latina) o il nuovo settore serbatoi dove collocare i rifiuti liquidi a più alta attività e ancora esposti al rischio attentati (Saluggia). E il deposito nazionale? Buio pesto anche su questo fronte. Dopo l’affaire Scanzano e la rivolta della Basilicata, nel 2003 Berlusconi aveva varato una commissione di 19 esperti per individuare un nuovo sito definitivo: non si sono mai riuniti una sola volta.
Poi c’è il delicato capitolo degli enti locali: a sentire la Sogin in questi anni hanno fatto a gara per complicare gli iter burocratici, mettendo ogni ostacolo alla bonifica. Sfiora il ridicolo la vicenda delle licenze negate dal comune di Sessa Aurunca per la centrale del Garigliano. Ci sono i rifiuti nucleari chiusi in modo precario dentro una struttura dichiarata ‘pericolosa per rischio sismico’. E c’è una trincea a pochi metri dal fiume dove sono sepolte buste di plastica zeppe di scorie, inumate negli anni Settanta. Una situazione di doppio pericolo, che l’Apat ha tentato di risolvere: ordine di disseppellire i rifiuti contaminati e spostarli in un magazzino da costruire secondo i criteri di sicurezza. Facile? No, perchè per il magazzino ci vogliono le licenze edilizie. E gli amministratori comunali non si fidano: la popolazione teme che una volta assemblato il bunker, vi siano trasferiti detriti tossici da altre regioni. Quindi il municipio ferma i lavori con un pretesto: "Quella per noi è rimasta una zona agricola e l’edificio per il deposito non si può fare", spiega l’architetto Gabriella Landi, responsabile dell’Ufficio tecnico municipale. E le licenze edilizie rilasciate negli ultimi venti anni? E la stessa costruzione della centrale autorizzata tanti anni fa? L’architetto non sente ragione. Anzi, rincara: "La centrale non risulta nemmeno sulle mappe del nostro piano di fabbricazione, per noi è come se non esistesse". Un fantasma, dunque. "Ma anche un paradosso causato dalle regole del decommissioning", precisa Massimo Romano: "I nostri vincoli, che vogliamo comunque rispettare, vanno ben oltre i migliori standard internazionali". Intanto in attesa di fare meglio del meglio, non si fa nulla.
Capitale esplosiva
È con questo andazzo che l’eredità nucleare continua a costituire una minaccia. Alla Trisaia le radiazioni avanzano a causa di una fossa che non si riesce a bonificare: lì l’Enea ha scaricato in passato rifiuti solidi ‘ad alta attività’. Al deposito Avogadro di Saluggia si sfiora la farsa: il ministero dello Sviluppo economico e l’Apat prima non hanno rinnovato la licenza di esercizio, poi hanno concesso una proroga di tre anni. Forse confidano nella clemenza delle piene della Dora. Nel frattempo lì continua a perdere liquido un’altra piscina contenente elementi di combustibile radioattivi. Ma invece di chiudere, raddoppia: Avogadro è ora candidato a ricevere il combustibile che si vuole togliere dal vicino sito Eurex.
Ma è nel XX municipio di Roma, a cento metri dall’abitato di Osteria Nuova, che si è creata la situazione più esplosiva. Qui la società Nucleco (controllata da Sogin) ha realizzato nel silenzio generale un nuovo magazzino: il deposito nazionale di rifiuti nucleari prodotti dal sistema sanitario. Si tratta di oltre 4 mila metri cubi, frutto di radiografie e chemioterapie, ammassati in capannoni ormai al limite. Loredana De Petris, senatrice Verde, ha da tempo lanciato l’allarme: "Continuare a raccogliere rifiuti nucleari in un’area così densamente urbanizzata è in contrasto con i più elementari principi di precauzione". Tutto inutile. Nuovi carichi pericolosi arrivano nel sito. Che è vulnerabile a un attacco esterno: non servirebbero incursori agguerriti, potrebbe bastare una molotov. E le fiamme sarebbero in grado di innescare un disastro. Arrivare al muro di cinta è facile, come ha constatato ‘L’espresso’. D’altronde, come si fa a isolare totalmente una base che ormai è circondata dalle case?